Ome Ewe abitava in una pagoda di nove piani circondata da una foresta di pini secolari d’oro e d’argento, con centinaia di fenici a guardia dell’entrata. Intorno a quella pagoda sgorgavano nove sorgenti di acqua calda purissima, del colore del cielo. Da queste acque fertili emergevano uova che Ome Ewe stringeva gentilmente a quel suo seno che avrebbe allattato e nutrito una infinità di bambini. Poco dopo la loro nascita Ome sollevava gli infanti con grande fermezza, con amore e preoccupazione allo stesso tempo. Li sollevava alti sopra di lei, guardandoli, poi li sculacciava con tenerezza, dicendo loro: “Vai, nasci!” In quel preciso istante la linea impercettibilmente curva dell’orizzonte veniva solcata. I bambini nascevano al mondo portando sul sedere il segno della mano della vecchia: la macchia mongolica. Un livido bluastro, luogo di residenza dell’inconosciuto, segno divino di vita e di forza,


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Ome Ewe abitava in una pagoda di nove piani circondata da una foresta di pini secolari d’oro e d’argento, con centinaia di fenici a guardia dell’entrata. Intorno a quella pagoda sgorgavano nove sorgenti di acqua calda purissima, del colore del cielo. Da queste acque fertili emergevano uova che Ome Ewe stringeva gentilmente a quel suo seno che avrebbe allattato e nutrito una infinità di bambini. Poco dopo la loro nascita Ome sollevava gli infanti con grande fermezza, con amore e preoccupazione allo stesso tempo. Li sollevava alti sopra di lei, guardandoli, poi li sculacciava con tenerezza, dicendo loro: “Vai, nasci!” In quel preciso istante la linea impercettibilmente curva dell’orizzonte veniva solcata. I bambini nascevano al mondo portando sul sedere il segno della mano della vecchia: la macchia mongolica. Un livido bluastro, luogo di residenza dell’inconosciuto, segno divino di vita e di forza,